Obiettivi, impegni, risultati
Un mondo di cooperazione
Nel mondo esistono 2 milioni e mezzo di cooperative, nelle quali lavorano 250 milioni di persone, e che hanno 1 miliardo di soci. Una realtà straordinaria presente nei cinque continenti, fatta di grandi e piccole imprese, ma che rivendica spazio nell'economia mondiale.
“WE NOT ME”
La Cooperazione, una risposta ai bisogni
Vi proponiamo una sintesi di alcune delle riflessioni che sono state al centro di un convegno
promosso, all’interno di Expo, da Ancc (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori)-Coop (in
collaborazione con scuola Coop), dal titolo “We not me”, nel tentativo di approfondire, in una dimensione ampia,
come sia possibile far crescere una forma di economia partecipata come la cooperazione.
Aprendo i lavori, il vice presidente di Ancc, Massimo Bongiovanni, ha sottolineato come “la cooperazione
sia una risposta non solo ai bisogni primari, ma anche un modello economico che, da protagonista, può assolvere
ad una duplice finalità, sociale e imprenditoriale, incidendo significativamente nei processi economici”. “In Italia,
in questi anni – ha proseguito Bongiovanni – Coop, grazie al proprio peso, è riuscita a determinare standard
di mercato sulla qualità e sulla sostenibilità delle produzioni e dei prodotti, incidendo su intere filiere
produttive”. Proprio partendo da questi risultati “sarebbe un errore assecondare una visione che assegna
alla cooperazione un ruolo marginale o di solo insediamento in settori a bassa intensità di capitale e di
innovazione o in ambiti interstiziali dell’economia, come se i grandi giochi debbano essere solo appannaggio di
grandi compagnie, pubbliche o private che siano”.
Un mondo di cooperazione
Su una popolazione mondiale attualmente stimabile in 7 miliardi e 350 milioni di persone, ben 1 miliardo sono cooperatori, cioè più o meno 1 persona su sette, sul nostro pianeta, è socio di una cooperativa. In India parliamo di 239 milioni di persone, di 180 milioni in Cina, di 125 negli Stati Uniti. O del Giappone dove la sola Coop di consumatori ha 26 milioni di soci, della Germania che ne ha 20 milioni o dell’Inghilterra che ne ha 13 come l’Italia .
Coloro che invece lavorano per una cooperativa sono circa 250 milioni di persone, pari al 9% degli occupati di tutto il globo. Nel mondo ci sono circa 2 milioni e 500 mila imprese cooperative. Cioè 1 ogni 3.000 abitanti, sparse nei 5 continenti, in paesi poveri come in quelli più ricchi, e presenti nei più diversi settori produttivi e dei servizi.
“Chiediamo più spazio al G20”
Di fronte a queste cifre, raccontate da Pauline Green, presidente dell’Alleanza internazionale delle cooperative (www.ica.coop), vale la pena fermarsi un attimo a riflettere e ragionare. Perché se tutti i giorni (e più che mai in questi lunghi anni di crisi economica mondiale) siamo martellati dal solo linguaggio delle società per azioni, delle imprese di capitali, delle quotazioni in Borsa, è del tutto evidente che si rischia di dimenticare che c’è, già oggi, un enorme pezzo di economia che, dentro al mercato globale, si muove provando a seguire altre logiche. “Pur nella pluralità di forme ed espressioni che la cooperazione ha oggi – spiega Pauline Green – è evidente che siamo un mondo che mette al centro della propria attività le persone, con i loro bisogni e da lì parte per costruire risposte. E lo fa in piccole comunità locali, ma anche su scala molto più ampia, attraverso aziende di grandi dimensioni. Per questo l’obiettivo politico che come Ica ci siamo dati è di promuovere un’attività e una mobilitazione che porti il G20, cioè il gruppo dei paesi economicamente più importanti, a riconoscere questa presenza, a valorizzarla e aiutarla”. Partendo anche dal riconoscere come, durante questa lunga e difficile crisi, la cooperazione sia stata un elemento di tenuta, che ha consentito di difendere il lavoro e il reddito delle famiglie.
“Cosa facciamo in Italia”
“Quando parliamo di noi anche in Italia – spiega il presidente nazionale di Legacoop, Mauro Lusetti – siamo troppo spesso abituati a farlo attraverso i numeri, dicendo che la cooperazione rappresenta l’8% del Pil, che abbiamo 12 milioni di soci. Quasi fosse una prova muscolare. Abbiamo invece bisogno di dire, molto di più, come usiamo la nostra forza, come incidiamo sulla vita delle persone. Il primo aspetto è la creazione di lavoro, di occupazione. Una crescita che per noi è continuata anche dopo l’arrivo della crisi. Nel 2006, ultimo anno prima dell’esplosione della crisi, i dipendenti di cooperative aderenti a Legacoop erano 429 mila, nel 2013 il numero di lavoratori era salito a 497 mila unità. In più in Italia, ogni anno nascono circa 7.000 nuove cooperative, alcune delle quali sono imprese fallite che rinascono grazie al fatto che gli operai decidono di rilevarle costituendo una cooperativa. Ma cooperazione in Italia significa anche tutte quelle realtà che cercano di costruire buona economia dai beni sequestrati e confiscati alla mafia. Sono cooperative di giovani, sempre più numerose. Infine, cooperazione significa anche Coop e Conad che rappresentano il 30% della distribuzione italiana, e che si stanno impegnando sul tema delle liberalizzazioni, dai farmaci alla benzina, garantendo benefici e risparmi a milioni di famiglie. Sono solo alcuni spunti ma credo aiutino a capire, in termini qualitativi, cosa siamo”.
Il punto, non solo guardando all’Italia ma in una dimensione mondiale, è se, dopo quanto si è visto in questi lunghi anni di crisi, non ci sia bisogno di usare paradigmi diversi rispetto a quello imperante del liberismo, della speculazione finanziaria, di un mercato tutto imperniato sul profitto. Come se, quando la parentesi della crisi sarà chiusa, tutto sarà destinato a ripartire esattamente come prima.
Una economia pluralista
No, non è così, non sarà così. C’è bisogno di pluralismo nei modelli d’impresa, ma soprattutto c’è bisogno di più solidarietà e di forme di relazione che partano dalle persone. “L’idea che molti continuano a sostenere, e cioè che facendo diventare i ricchi più ricchi, comunque qualcosa gocciolerà sotto e dunque qualche beneficio ci sarà, è sbagliata e non regge – spiega Leonardo Becchetti, docente di economia politica all’Università di Tor Vergata – L’idea di un homo oeconomicus che è felice solo se guadagna di più non spiega la realtà, non spiega, ad esempio, la grande realtà di chi fa volontariato. Per questo serve una forte bio-diversità nell’organizzazione dell’economia, devono crescere le imprese che non massimizzano i profitti. Io da sempre sostengo che i cittadini votano col loro portafoglio, nel senso che facendo la spesa possono incidere e premiare chi si comporta in modo diverso. Una recente indagine Nielsen, dice una cosa molto significativa e che cioè più del 40% dei cittadini al mondo è disposta a pagare di più per avere beni e prodotti sostenibili ed eticamente responsabili. Questa può essere una leva di cambiamento molto importante, capace di incidere su intere filiere”.
Coop di grandi dimensioni
Pur riconoscendo alla cooperazione un punto di partenza positivo, cioè l’attenzione alle persone e ai loro bisogni, molti spesso, anche in Italia, esprimono perplessità quando la cooperazione diventa impresa di grandi dimensioni. Questo è compatibile con i valori e la distintività originaria? Qui può essere utile allargare lo sguardo e vedere come tra le prime 30 grandi cooperative al mondo non ce ne sia neppure una italiana. In testa troviamo tre colossi del mondo assicurativo giapponese (Zenkyoren con un fatturato da 77 miliardi di dollari, Nippon Life con 66 miliardi, e Meiji Yasuda Group con 62 miliardi), poi la statunitense State Farm Group (52 miliardi sempre in campo assicurativo), poi c’è la francese Leclerc nel campo della distribuzione (57 miliardi). E scorrendo la classifica spuntano imprese della Germania, della Sud Corea, degli Usa, della Svizzera, dell’Inghilterra, della Nuova Zelanda, dell’Olanda, del Canada. E si scopre come sigle, magari note, sono cooperative, pensiamo a banche come la francese Credite Agricole o l’olandese Rabobank.
“Dunque la situazione italiana – spiega ancora il presidente di Legacoop, Lusetti – va inquadrata in questo contesto. C’è nel mondo una cooperazione che è cresciuta e che è stata capace di vincere le proprie sfide. In più, sul tema dimensioni, voglio anche ricordare che per far nascere nuova cooperazione servono risorse che possono venire solo se si hanno le spalle robuste. E dunque le grandi cooperative sono fondamentali per sostenere l’intero sistema e aiutare i piccoli a nascere e crescere. Sul piano dei valori, dell’etica e del rispetto dei principi, il tema dimensioni non credo incida. La dimensione aziendale pone questi temi in termini diversi, ma siamo pieni di esempi di buone pratiche in grandi cooperative e ad esempi meno brillanti in piccole realtà”.
Nuova cooperazione
Un ragionamento che condivide in pieno anche un economista come Leonardo Becchetti: “Io sono stato contrario alla riforma, recentemente varata del governo, sulle Banche popolari italiane che ha imposto, a quelle superiori agli 8 miliardi di raccolta, di abolire il voto capitario e diventare di fatto delle normali società per azioni. Non c’era alcun motivo o evidenza che imponesse di fare ciò. Un colosso come la canadese Banque du Jardin, parliamo di una realtà cooperativa da 220 miliardi di fatturato, ha dimostrato di avere le migliori pratiche in assoluto di tutela del risparmio e come standard etici. Dunque? In più la grande cooperazione serve a far crescere nuova cooperazione. In questo mercato più si cresce e più si possono fare le cose che vorremmo”. Per questo serve più cooperazione, dove la cooperazione è un arcipelago di forme e dimensioni diverse, che deve restare in costante dialogo con i soci, con le persone, con i territori, che deve aggiornare costantemente la sua governance, essere trasparente, ma che è fondamentale per avere un mercato economico più equilibrato e solidale. (www.consumatori.e-coop.it)
Dal Perù all’India e New York
Si potrebbe parlare di una cooperazione dai mille volti. E anche al convegno milanese la cooperazione
ha mostrato alcuni di questi suoi mille volti. Come la cooperativa Norandino che in Perù unisce
oltre 7.500 piccoli produttori di caffè, cacao e zucchero che operano sulle terre una volta destinate alla
coltivazione della coca. Grazie al Fair trade, il commercio Equo e solidale e alla decisiva partnership con Coop, i
contadini della Norandino, sono riusciti a consolidare la loro esperienza e a sfuggire alla dittatura di chi specula sul
prezzo di questi prodotti. Una speculazione che finisce con lo scaricarsi sui produttori che sono l’ultimo anello
della catena. Una storia di emancipazione e riscatto è anche quella Di Sewa Federation che, in India,
rappresenta 106 cooperative che danno lavoro a oltre 100mila donne, offrendo aiuto e competenze per
ottenere piccoli capitali per avviare attività, attrezzature e strumenti tecnologici, ma anche servizi. Insomma
l’obiettivo è renderle autosufficienti in una realtà dove le donne sono spesso emarginate.
Ma cooperazione è anche la Park Slope di New York. Qui nel quartiere di Brooklyn, dal 1973, è attivo un punto
di vendita cooperativo in cui possono comprare solo volontari che nel contempo prestano anche ore di lavoro
gratuito per far funzionare il negozio. Così, nello stesso luogo, a volte si va a fare la spesa, a volte si va a fare
i cassieri e a volte a esporre la merce sugli scaffali. Dunque, quella dei 16 mila membri, è un’autogestione
accompagnata da un intenso lavoro di incontri aperti a tutti i soci per affrontare e coordinare le attività.
“Solidarietà contro le diseguaglianze”
Juliet Schor: “Serve una prospettiva nuova per il futuro”
“La cooperazione è empatia, è inclusione, è economia basata sulla solidarietà. Per questo oggi il mondo ha bisogno di più cooperazione, per trovare risposte alle tre grandi questioni che abbiamo di fronte e che impongono all’umanità di percorrere strade nuove”.
Parola di Juliet Schor, sociologa ed economista, docente del Boston College, che nel suo racconto parte da un paradosso. “Se in una sala fossero concentrate le 80 persone più ricche al mondo, in quella sala sarebbe concentrata metà dell’intera ricchezza del pianeta. Oggi il problema della diseguaglianza e della concentrazione della ricchezza è come non mai drammatico, perché è stato accentuato dalla crisi economica, una crisi che concentra sempre più la ricchezza e aumenta la distanza tra fasce sociali. Negli Usa, di tutta la crescita di questi ultimi anni, ha beneficiato solo l’1% più ricco della popolazione. Se dopo la seconda guerra mondiale abbiamo vissuto una fase che ha fatto nascere un’ampia classe media di decine di milioni di persone, oggi non è più così. La classe media si è impoverita e la ricchezza siconcentra sempre più in ristrette élite”.
Se il primo fattore è la diseguaglianza, il secondo tema che Juliet Schor pone è quello “dei cambiamenti climatici e del surriscaldamento globale che rischia di rendere invivibili, nei prossimi decenni, enormi aree del pianeta in molte delle quali vive già una popolazione molto povera. Dunque l’impegno a non superare i 2 gradi di aumento della temperatura globale deve partire immediatamente. E dobbiamo tenerne conto nel definire le scelte che facciamo per il nostro futuro”.
L’ultimo tassello è legato alle innovazioni tecnologiche e alla rivoluzione digitale. Un processo che, se certo offre indubitabili opportunità per migliorare la qualità della vita di tutti, renderà però sempre meno necessario il lavoro umano, perché saranno le macchine e i computer a lavorare al posto dell’uomo. Un trend inevitabile per la Schor e di cui ogni giorno abbiamo conferme.
“La combinazione di queste tre fattori, diseguaglianze, meno lavoro disponibile e cambiamento climatico – prosegue Schor – produce un problema enorme per l’umanità. E impone di puntare su principi di solidarietà per costruire una prospettiva futura sostenibile. Il modello attuale è sbagliato, non risolve questi nodi. Se si punta solo sulla competizione ciò porterà al fallimento”. Dunque, la cooperazione, come modello di relazione economica, non è idealmente o astrattamente migliore, “lo è nel concreto, per le risposte che può dare ai problemi che abbiamo, perché crea lavoro e redistribuisce più equamente il reddito”.